Avvenire di Calabria

Dall’emergenza a un nuovo modello di cura. Il pastore di Cassano allo Ionio risponde alla nostre domande in occasione della Giornata internazionale del malato

Monsignor Savino: «Salute, è il tempo della comunità»

Federico Minniti

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Sanità, diritti, coronavirus e Calabria. Questi i tempi principali dell’intervista con monsignor Francesco Savino, delegato della Conferenza episcopale calabra per il Servizio della Salute.

Celebrare la Giornata del Malato durante l’annus horribilis segnato dalla pandemia globale non è semplice. Quale riflessione vuole porre ai fedeli calabresi?

Senz’altro un’annus horribilis carico di paure e di incertezze che ha generato emergenze varie, da quella sanitaria a quella economica, da quella sociale a quella psico-psichiatrica fino a quella educativa. Viviamo ancora un tempo di sospensione ma forse anche un tempo ritrovato, un tempo che deve aiutarci a ripensare ai nostri modi di vivere la vita: dal delirio di onnipotenza alla consapevolezza delle nostre fragilità, dall’individualismo all’ essere comunità, dal pensare di poterci salvare da soli alla salvezza collettiva. L’esortazione che faccio a noi tutti è che è l’ora della corresponsabilità e non dobbiamo sentirci abbandonati alle forze del male o a un destino collettivo di morte. La grazia di Cristo c’è e il suo Spirito ci sostiene, ci incoraggia e ci apre orizzonti di senso.

Le vicende legate al Commissario ad acta hanno svelato di fronte all’opinione pubblica nazionale tutta la fragilità della sanità calabrese. Come ha vissuto quel periodo e che prospettive vede adesso?

Le impietose e volgari ribalte mediatiche, legate al commissario ad acta, hanno marchiato i calabresi, designando scenari forse già noti ma per i quali si è toccato il fondo della vergogna e aperto il cancello della incompetenza. Ho vissuto come Vescovo sentimenti di amarezza e di tristezza, di indignazione e di rivolta interiore. Ho sentito ancora più forte dentro di me l’empatia con tutti i cittadini calabresi, che non meritano assolutamente di vedersi negato il diritto alla salute. Mi sono detto e ho detto in più circostanze che è l’ora della rivoluzione mite e pacifica, una rivoluzione che deve portare il nome e il cognome di ciascuno andando oltre ogni pessimismo e fatalismo, ogni omertà e contiguità con quei poteri che si servono della Calabria più che mettersi al servizio della Calabria.

Eppure la Calabria è ricchissima di grandi professionisti, spesso dotati di un’umanità fuori dal comune. Non è vero, quindi, che la sanità calabrese è malata?

La Calabria ha uomini e donne, professionisti di alto profilo, dotati di scienza, coscienza e umanità, che però spesso sono marginalizzati perché non disponibili ai compromessi. La sanità calabrese è malata perché organizzata e gestita male. Gli ultimi dati sulla sperimentazione del Nuovo Sistema Nazionale di Garanzia dei Livelli Essenzialidi Assistenza, condotta dal Ministero della Salute e dalle regioni, rilevano che la Calabria è inadempiente nel garantire i livelliessenziali di assistenza sanitaria. Le maggiori criticità della Sanità calabrese sono riconducibili all’occupazione sistematica della stessa da parte della politica, alle infiltrazioni impropriedell’imprenditoria sanitaria privata che ha troppo spesso cercato di acquisire “quote di mercato” attraverso il doloso smantellamento della Sanità pubblica. Va anche sottolineato che la sanità in Calabriaè esclusivamente incentrata sugli ospedali con la conseguente desertificazione dei servizi territoriali. Per la sua riorganizzazione è auspicabile che, oltre a una classe dirigenziale meritocratica, non organica ad alcun potere, le politiche relative alla locazione delle risorse vengano indirizzate verso tre direzioni fondamentali: il potenziamento della rete ospedaliera; il riequilibrio tra ospedale e medicina di comunità- territorio; l’offerta di servizi e strutture a carattere socio-assistenziale e socio-sanitario.

Il coronavirus ha fatto riaffiorare una coscienza sanitaria collettiva. Prendersi cura dei più fragili, degli anziani in particolare, è diventato un imperativo sociale. Pensa che questo possa essere uno dei lasciti morali più importanti per invertire la tendenza che vedeva i nostri “nonni” sempre più soli?

Se sprechiamo la lezione che il coronavirus ci sta consegnando, vuol dire che il disastro antropologico non sarà né arginato né superato. Gli anziani hanno pagato e continuano a pagare il prezzo più alto in questa pandemia soprattutto nelle residenze sanitarie. Ritengo, allora, strategico adottare nuovi piani di gestione delle cronicità e delle fragilità da incrementare a scopi preventivi a livello distrettuale, con la cooperazione della medicina generale, da organizzare anche in forma associativa, dalle aggregazioni funzionali territoriali (Aft) alle unità complesse di cure primarie (Uccp). Sulle residenze sanitarie bisognerà ridefinire i processi organizzativi, occorrerà iniziare a ragionare su residenzialità più flessibili e modulari e investire risorse sul personale da destinare alla formazione e al potenziamento delle competenze professionali. Servono professionisti dell’assistenza e non operatori improvvisati. Anche sull’assistenza domiciliare integrata si dovrà investire di più, visto che siamo il paese con il maggior numero di anziani in Europa. La domiciliarità dell’assistenza e delle cure costituiscono un forte antidoto per prevenire l’isolamento e per assicurare maggiore protezione degli anziani costretti a vivere in solitudine. Anche le parrocchie, soprattutto attraverso il ministero dei ministri straordinari della Santa Comunione, che mi piace chiamare il servizio pastorale della consolazione, dovranno attivare una pastorale di prossimità, di vicinanza accanto agli anziani più efficace e continuativa.

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